Dove investire nel 2026? Il 2026 si prospetta come un anno in cui i mercati finanziari dovranno navigare tra opportunità di ripresa e rischi geopolitici. Dopo gli shock inflazionistici e i rialzi dei tassi dei primi anni ’20, molti analisti prevedono un ritorno a condizioni più stabili: inflazione in graduale normalizzazione e politiche monetarie meno restrittive. Tuttavia, permangono fattori di incertezza – in primis le tensioni commerciali e i dazi – che potrebbero frenare la crescita globale In questo articolo esamineremo, classe di attivo per classe di attivo, dove gli esperti suggeriscono di investire nel 2026: dalle azioni agli ETF, dalle obbligazioni ai mercati emergenti, senza trascurare criptovalute, beni rifugio (come oro e diamanti), investimenti passionali (arte e collezionismo) e persino l’imprenditoria (startup e franchising). L’obiettivo è fornire una panoramica completa, con un tono professionale ma divulgativo, su come orientare i risparmi nel 2026. (Nota: Nessun investimento è privo di rischi; diversificare è fondamentale e queste indicazioni non sostituiscono il parere personalizzato di un consulente finanziario qualificato.)*
1. Scenario macroeconomico per il 2026: ripresa moderata e incognite dei dazi
Gli esperti delineano per il 2026 uno scenario macroeconomico di crescita moderata, con importanti miglioramenti sul fronte inflazione/tassi ma anche potenziali ostacoli legati al commercio internazionale. Le stime attuali indicano che l’economia globale potrebbe crescere intorno al +3,1% nel 2026. Le economie avanzate dovrebbero espandersi più lentamente (zona Euro ~+1,0%, USA +1,6% annuo in media nel 2025-26 secondo alcune prevision), mentre i mercati emergenti manterranno ritmi più sostenuti (+4% collettivo) grazie a bilanci più solidi e a politiche monetarie accomodanti nei paesi in sviluppo.
Inflazione e tassi: Dopo i picchi registrati nel 2022-23, l’inflazione è attesa in graduale discesa verso i target, sebbene possa restare leggermente sopra il 2% in alcuni Paesi. Questo dovrebbe permettere alle banche centrali di allentare la stretta monetaria: ad esempio la BCE potrebbe riportare i tassi su livelli “neutrali” entro fine 2025, mentre la Fed negli USA valuta possibili tagli dei tassi se l’inflazione continuerà a calare e la crescita darà segnali di rallentamento. Tassi d’interesse più bassi o stabili nel 2026 creerebbero un contesto più favorevole per investimenti sia azionari che obbligazionari.
Crescita economica: La crescita, pur moderata, mostra segnali di tenuta. In Europa il PIL dovrebbe risalire leggermente: le proiezioni per l’Eurozona parlano di un +0,8% nel 2025 e +1,0% nel 2026. L’Italia, ad esempio, è attesa passare da +0,6% nel 2025 a circa +0,8-1,0% nel 2026, anche grazie al contributo degli investimenti pubblici (PNRR) e al recupero del potere d’acquisto delle famiglie con inflazione in calo. Negli Stati Uniti, dopo la forte espansione post-pandemica, la crescita dovrebbe stabilizzarsi su livelli più bassi (~1-2%), complice l’effetto ritardato dei rialzi dei tassi e un possibile rallentamento dei consumi. Va però notato che le previsioni globali sono recentemente migliorate in seguito a sviluppi positivi sul fronte commerciale: il FMI a luglio 2025 ha rivisto al rialzo le stime di crescita mondiale (3,1% nel 2026) assumendo un’attenuazione delle tensioni tariffarie USA-Cina.
Impatto dei dazi e delle tensioni commerciali: Proprio il tema dei dazi rappresenta la maggiore incognita sullo scenario 2026. L’ipotesi di nuovi dazi generalizzati – legata a un ritorno di politiche protezionistiche aggressive (ad esempio una nuova “America First” con tariffe 25% su tutte le importazioni USA e fino al 60% su quelle cinesi) – preoccupa gli analisti per le possibili ricadute negative su commercio e investimenti a livello globale. All’inizio del 2025 gli annunci di nuovi dazi avevano già spinto gli indici di incertezza economica ai massimi storici, frenando le decisioni di investimento e colpendo le catene produttive mondiali. In Italia, il Centro Studi Confindustria ha stimato che uno scenario di escalation tariffaria prolungata potrebbe costare circa -0,6% di PIL nel 2026 rispetto al trend base. Allargando lo sguardo, oltre 3.400 nuove misure protezionistiche all’anno sono state introdotte nel mondo dopo il 2020 (quasi 3.000 in più rispetto al periodo pre-2020) – un dato che evidenzia quanto il protezionismo sia tornato protagonista. Se queste barriere dovessero aumentare ulteriormente, “minerebbero la struttura stessa degli scambi internazionali, con profonde ricadute sul PIL globale” avverte Confindustria.
Detto ciò, lo scenario non è solo a tinte fosche. Vi sono anche fattori positivi: la resilienza di famiglie e imprese si è rivelata maggiore del previsto negli ultimi anni, e molte aziende hanno imparato a gestire meglio le catene di approvvigionamento diversificando i fornitori. Inoltre, se le tensioni commerciali troveranno compromessi (ad esempio nel caso di un accordo duraturo USA-Cina), si aprirebbero margini per un miglioramento del clima economico. Nel suo aggiornamento di luglio 2025 il FMI ha infatti esplicitato che le sue previsioni ottimistiche incorporano l’ipotesi di stop all’escalation dei dazi: le tariffe USA effettive sono stimate in calo (dal 24,4% ipotizzato ad aprile a ~17,3% grazie a intese preliminari) e si assume che non vengano introdotti nuovi rialzi oltre le scadenze fissate. Questo “equilibrio precario” sui dazi, se mantenuto, potrebbe sostenere maggiormente crescita e fiducia.
In sintesi, sul 2026 gli esperti delineano un quadro di moderata fiducia, ma invitano alla prudenza: volatilità e incertezza potrebbero restare elevate a causa dei possibili scossoni geopolitici e commerciali. In questo contesto, risulta ancora più importante per gli investitori bilanciare il portafoglio e puntare su qualità e diversificazione (concetti ricorrenti nei consigli per il medio termine). Vediamo dunque, uno per uno, i principali settori e strumenti d’investimento e le relative prospettive secondo gli analisti.
2. Azioni: focus su qualità, trend strutturali e diversificazione geografica
Il mercato azionario rimane una delle destinazioni principali per far crescere il capitale nel lungo termine. Gli esperti prevedono che le borse possano continuare a salire nel 2026, seppur con qualche oscillazione. Un sondaggio di analisti condotto a metà 2025, ad esempio, indicava attese per ulteriori record degli indici azionari nei successivi 12 mesi. L’indice S&P 500 (principale listino USA) è stimato in crescita di circa +7% entro metà 2026, proseguendo il trend positivo già visto nel 2023-25. Anche gli indici europei dovrebbero avanzare, beneficiando di valutazioni iniziali più contenute e di una ripresa economica leggermente più vivace nel 2026 rispetto al ’24-’25.
Azioni USA vs internazionali: Molti strategist attualmente favoriscono i titoli USA rispetto a quelli di altri mercati sviluppati per il prossimo futuro. Questo per via della forza di settori chiave americani (tecnologia, comunicazioni, difesa) e di una struttura economica considerata più flessibile. In aggiunta, dopo la correzione del 2022, la borsa USA ha mostrato notevole capacità di recupero, toccando nuovi massimi nel 2025 nonostante gli shock sui dazi. Tuttavia, non manca qualche voce di cautela: alcuni gestori globali ritengono le azioni USA costose ai livelli attuali – il Shiller P/E (CAPE) ha toccato valori tra i più elevati dal boom dot-com, segnalando valutazioni tirate. Questo ha spinto parte degli investitori istituzionali a ridurre l’esposizione sugli USA ritenendoli “sopravvalutati”, a favore di mercati con multipli più convenienti (Europa, Giappone ed emergenti). Per l’investitore comune, la lezione è bilanciare: mantenere una quota significativa su indici americani leader (che restano motore di innovazione e profitti), ma diversificare geograficamente per mitigare i rischi di un eventuale calo concentrato su Wall Street.
Growth vs Value: Un altro tema dibattuto è la rotazione tra titoli “growth” (crescita) e “value” (valore). Nel contesto attuale di tassi in via di stabilizzazione, molti esperti tornano a privilegiare i titoli growth, cioè aziende ad alto potenziale di crescita degli utili (tipicamente tecnologiche), rispetto ai titoli value più maturi. Questo perché con l’inflazione sotto controllo e i rendimenti obbligazionari non più in rapido aumento, le valutazioni dei growth stock risultano più giustificate. Già nella prima metà del 2025 si è assistito a un forte rimbalzo dei colossi tech statunitensi – i cosiddetti “Magnificent 7” (Apple, Microsoft, Google, Amazon, Meta, Tesla, Nvidia) – che hanno trainato gli indici. Tuttavia, si segnala anche un interessante movimento “sotto la superficie”: l’indice S&P 500 equal-weight (in cui ogni titolo ha lo stesso peso) ha a lungo sottoperformato l’indice tradizionale dominato dai big tech, ma diversi analisti ritengono che questo trend potrebbe invertirsi nel prossimo decennio. Se la concentrazione di mercato dovesse ridursi, i titoli “minori” finora trascurati potrebbero sovraperformare di fino a 8 punti percentuali annui in scenari di pieno mean-reversion. In parole povere, potrebbe essere un buon momento per guardare anche oltre i soliti nomi FAANG, includendo in portafoglio mid-small cap di qualità che trattano a sconto e potrebbero beneficiare di una rotazione.
Settori e temi caldi: I megatrend strutturali continueranno a offrire spunti interessanti nel 2026. In primis la tecnologia, con particolare enfasi su Intelligenza Artificiale e automazione, rimane un driver di crescita di lungo termine. Molte aziende legate all’AI (hardware, software, servizi cloud) stanno vedendo incrementi di utili e investimenti senza precedenti; gli esperti concordano che l’AI è solo agli inizi come impatto economico. Anche la transizione energetica e la sostenibilità ambientale sono temi forti: i settori delle energie rinnovabili, mobilità elettrica, efficienza energetica e simili dovrebbero beneficiare sia di trend di mercato sia di supporto normativo e incentivi pubblici. Ulteriori comparti da monitorare includono la sanità e biotech (invecchiamento della popolazione e progressi scientifici creano opportunità, specie in biotech innovativo), la cybersecurity (domanda strutturalmente in crescita con la digitalizzazione) e la difesa/aerospazio (spinta dai nuovi scenari geopolitici e dall’aumento delle spese militari, in particolare in Europa).
Dal punto di vista geografico, Europa e Giappone offrono alcuni spunti: in Europa i settori ciclici come industriali e finanziari potrebbero beneficiare di valutazioni depresse e del miglioramento del ciclo economico nel 2026. Inoltre, l’Europa sta attuando un pivot verso nuove alleanze commerciali e investimenti comuni (si pensi ai piani per difesa, chip, energia) che, secondo Amundi, uniti a tassi più bassi e a un euro più forte, potrebbero stimolare domanda interna e credito privato nel continente. In Giappone, le riforme sulla governance societaria e l’attenzione al ritorno per gli azionisti (buyback, dividendi) hanno acceso interesse sugli equity nipponici, che infatti nel 2023-25 hanno performato molto bene.
Qualità prima di tutto: Indipendentemente dal settore o area geografica prescelta, gli esperti raccomandano un approccio di selezione focalizzato sulla qualità. Ciò significa preferire aziende con fondamentali solidi – bilanci sani, basso indebitamento, vantaggi competitivi chiari e flussi di cassa stabili. In una fase di crescita moderata e possibili turbolenze, le società di qualità tendono ad essere più resilienti. Come sintetizza un rapporto: “Privilegiare aziende con fondamentali solidi” rimane un principio cardine. Inoltre, diversificare su più settori e aree riduce il rischio specifico: non mettere tutte le uova nello stesso paniere, soprattutto dopo anni di forti divergenze tra comparti (ad es. tecnologici vs altri).
Outlook finale sulle azioni: Nel complesso, l’azionario nel 2026 può offrire rendimenti interessanti, ma bisogna attendersi volatilità. Eventi come sviluppi sui dazi, mosse delle banche centrali o tensioni geopolitiche potrebbero innescare correzioni temporanee (come avvenuto nell’aprile 2025, quando l’annuncio di nuovi dazi USA fece cadere i listini, poi prontamente risaliti a nuovi massimi a giugno). La chiave sarà mantenere una visione di lungo periodo, evitando reazioni impulsive ai cali di breve: chi ha investito con disciplina negli ultimi anni è stato premiato – l’S&P 500, ad esempio, era +6% nel 2025 (YTD a inizio luglio) nonostante la volatilità indotta dai dazi. Come nota un analista, “i solidi rendimenti degli ultimi anni sottolineano i benefici di un approccio di lungo termine”. Dunque, per il 2026 gli esperti consigliano di rimanere esposti alle azioni, calibrando però il portafoglio su titoli/settori ben posizionati e mantenendo un’adeguata diversificazione.
3. ETF (Exchange-Traded Funds): diversificazione semplice e globale
Per chi cerca un modo efficiente di investire nel 2026, gli ETF rimangono uno strumento privilegiato. Gli Exchange-Traded Funds sono fondi quotati in borsa che replicano passivamente un indice di riferimento – azionario, obbligazionario, settoriale o di materie prime – offrendo così diversificazione immediata e costi contenuti. Gli analisti li definiscono spesso come “un eccellente strumento per costruire un portafoglio diversificato a basso costo” adatto sia a investitori alle prime armi sia a quelli espertiVantaggi e tipologie di ETF: Il primo grande vantaggio è la semplicità: con un solo ETF si può ottenere esposizione a decine o centinaia di titoli, riducendo il rischio specifico. Inoltre, gli ETF hanno in genere commissioni annue molto basse rispetto ai fondi attivi tradizionali, e sono liquidi (scambiabili in qualsiasi momento di mercato come un’azione). Nel 2026 l’offerta di ETF è ampia e in continua crescita. Possiamo distinguere alcune categorie chiave:
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ETF azionari generici: replicano indici ampi di mercato. Ad esempio un ETF su indici globali come l’MSCI World o l’ACWI permette con un acquisto di investire nelle principali azioni di tutto il mondo sviluppato. Ci sono poi ETF regionali, come quelli sull’S&P 500 (mercato USA), sul Euro Stoxx 50 o MSCI Europe (Europa), su mercati emergenti globali (MSCI Emerging Markets) o su singoli paesi. Questi strumenti offrono un’esposizione calibrata alle aree geografiche preferite: ad esempio, un investitore convinto del rialzo di Wall Street potrebbe puntare su un ETF S&P 500, mentre chi vuole scommettere sul recupero dell’Europa acquisterà un ETF Euro Stoxx 50, e così via.
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ETF settoriali: mirati a specifici settori industriali. Si trovano ETF su tecnologia, sulla salute, finanziari, energia, utility, real estate, ecc. Ad esempio, se si crede nel boom della cybersecurity, esistono ETF globali che raggruppano le aziende leader di quel segmento; oppure ETF sul settore biotecnologie se si vuole puntare su quel tema. Nel 2026 sono disponibili ETF settoriali anche molto di nicchia (dai videogiochi all’energia solare).
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ETF tematici: una categoria in forte crescita, che raggruppa aziende legate a un certo megatrend. Alcuni temi popolari: tecnologia AI e robotica, veicoli elettrici e batterie, clean energy e acqua, e-commerce e digitalizzazione, metaverso, blockchain ecc. Un ETF tematico offre un modo per capitalizzare su una tendenza strutturale senza dover selezionare i singoli titoli. Ad esempio, un ETF sull’Intelligenza Artificiale comprende un paniere di società globali che operano nell’AI (dai produttori di chip alle piattaforme software), permettendo di investire in questo trend con un solo strumento.
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ETF obbligazionari: replicano indici di bond. Possono essere diversificati per emittente (es. titoli di Stato di vari paesi, o obbligazioni corporate investment grade, o high yield globali) e per scadenza (esistono ETF cosiddetti “a scadenza definita” che contengono bond tutti con scadenza entro un certo anno, ad esempio “iBonds 2026” in USD che includono corporate bond con maturazione nel 2026). Nel 2026, con i rendimenti obbligazionari saliti, questi ETF possono offrire un flusso cedolare interessante e la comodità di non dover comprare ogni singolo titolo obbligazionario.
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ETF su materie prime: detti anche ETC (Exchange Traded Commodities), replicano l’andamento di commodity come oro, argento, petrolio, gas naturale, grano, ecc.. Sono strumenti utili per coprirsi dall’inflazione o speculare sui prezzi delle materie prime, pur con la dovuta cautela data l’alta volatilità di queste ultime. Un classico esempio è l’ETF sull’oro fisico, che segue il prezzo spot dell’oro e offre un’alternativa all’acquisto di lingotti.
Strategie con ETF nel 2026: Dati i rischi ancora presenti, molti consulenti consigliano un approccio core-satellite: un “core” di portafoglio ben diversificato tramite ETF globali (es. un ETF MSCI World per la parte azionaria internazionale, un ETF aggregate bond per la parte obbligazionaria), affiancato da “satelliti” tattici per inseguire opportunità specifiche o inclinazioni personali (es. un ETF sui mercati emergenti per aumentare il peso degli emergenti se si è ottimisti su di essi, oppure alcuni ETF tematici su trend in cui si crede fortemente, come energie rinnovabili o tecnologia). Questa strategia unisce diversificazione e flessibilità: gli ETF core assicurano esposizione ampia e costi ridotti, mentre quelli tematici/settoriali aggiungono una dose di rendimento extra (ma con rischio più concentrato).
Un esempio concreto di portafoglio 2026 bilanciato via ETF potrebbe essere: 60% azioni / 40% obbligazioni con 60% in un ETF azionario globale (MSCI World o All Country World) + 10% in un ETF mercati emergenti (per sovrappesare la crescita emergente) + 10% in un ETF settore tech (per accentuare l’esposizione all’innovazione) + 20% in un ETF governativo euro o USA (titoli di Stato) + 10% in un ETF corporate bond investimento grade + 10% in un ETF inflation-linked o oro (come copertura). Naturalmente le combinazioni possibili sono infinite e vanno tarate su obiettivi e propensione al rischio individuali.
Consigli degli esperti: Il consenso è che gli ETF manterranno un ruolo centrale nella cassetta degli attrezzi dell’investitore anche nel 2026. “Strumento eccellente per portafogli diversificati a basso costo” si diceva, e infatti la loro popolarità continua a crescere anche tra i consulenti finanziari professionisti. Attenzione però a cosa c’è dentro l’ETF: dietro la sigla apparentemente uguale si celano approcci differenti (replicazione fisica o sintetica, diversi provider, valute di denominazione, etc.). Inoltre, gli ETF replicano sì un indice, ma l’indice stesso può essere concentrato – ad esempio un ETF Nasdaq100 ha forte concentrazione sui titoli tech mega-cap, quindi non è “diversificato” in senso assoluto quanto un ETF MSCI World. In definitiva, per il risparmiatore medio i pregi superano di gran lunga i difetti: con pochi ETF ben scelti si può ottenere un’ampia copertura dei mercati globali, riducendo i costi e semplificando la gestione. Resta fondamentale selezionare ETF adatti al proprio piano e mantenere il controllo del rischio (anche gli ETF infatti risentono della volatilità di mercato: un ETF azionario può perdere valore come qualsiasi azione in caso di ribassi generalizzati dell’indice sottostante).
4. Obbligazioni: ritorno di fiamma con i tassi in discesa?
Dopo un periodo difficile segnato dalla risalita dei tassi (che nel 2022-23 ha fatto crollare i prezzi dei bond), le obbligazioni stanno tornando al centro dell’attenzione come componente chiave di portafoglio. Il 2026 potrebbe rivelarsi un anno favorevole per i bond, per vari motivi: i rendimenti offerti sono ora decisamente più alti che pochi anni fa, l’inflazione in raffreddamento aumenta il potere reale delle cedole, e un possibile calo dei tassi di interesse genererebbe guadagni in conto capitale sui titoli obbligazionari esistenti.
Rendimento e stabilità: Le obbligazioni sono da sempre viste come “àncora di stabilità” di un portafoglio, fornendo reddito periodico e relativa protezione nelle fasi di ribasso azionario. Dopo il brusco aggiustamento del 2022 (quando i prezzi delle obbligazioni scesero per adeguarsi ai tassi più alti), ora gli analisti vedono opportunità interessanti. Con i tassi che potrebbero stabilizzarsi o iniziare a scendere dai picchi precedenti, i bond nel 2026 tornano a giocare un ruolo significativo per generare reddito e diversificazione. Ad esempio, un BTP decennale italiano rendeva circa il 4% nel 2025, un livello che non si vedeva da quasi un decennio – se i tassi si abbassassero al 3% nei prossimi anni, chi ha comprato a 4% godrebbe non solo di una cedola elevata ma anche di un apprezzamento del prezzo del titolo. Gli esperti evidenziano dunque come i portafogli bilanciati potrebbero aumentare leggermente la quota obbligazionaria per sfruttare questi rendimenti tornati appetibili
Quali obbligazioni scegliere? La gamma è ampia, ma possiamo distinguere alcune opzioni chiave:
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Titoli di Stato dei Paesi avanzati: sicuri e liquidi, offrono cedole modeste ma affidabili. Ad esempio, i Treasury USA o i Bund tedeschi sono i riferimenti globali risk-free (in USD ed EUR rispettivamente). I Treasury decennali USA rendevano tra il 4% e il 5% nel 2023-24; se l’economia USA rallenta, gli strategist si attendono un calo del rendimento attorno al 3-3,5%, generando quindi guadagni in conto capitale per i possessori (alcuni esperti si aspettano infatti un “raffreddamento dei rendimenti decennali nonostante i timori sui dazi”). Anche i BTP italiani sono considerati attraenti: oltre ad avere rendimenti elevati (4%+), godono di una tassazione agevolata in Italia (12,5% sugli interessi, vedi sezione fiscale) e nel 2026 beneficeranno del sostegno del Piano di Ripresa europeo che mantiene stabili i conti pubblici. Va comunque monitorato il rischio paese (spread) nel caso di tensioni sul debito.
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Obbligazioni corporate investment grade: emesse da aziende solide con rating elevati, offrono un extra-rendimento rispetto ai governativi (negli USA ad esempio +1/+1,5% sopra i Treasury) a fronte di un rischio creditizio contenuto. Dopo gli stress del 2022-23, molte aziende hanno bilanci abbastanza solidi, e i differenziali di rendimento (spread) si sono leggermente ampliati, rendendo questa classe più remunerativa. Nel 2026, se l’economia tiene, le obbligazioni societarie di alta qualità potrebbero dare soddisfazioni, con cedole attorno al 4-5% in euro per 5-7 anni di scadenza. Gli analisti raccomandano comunque selettività: privilegiare emittenti con fondamentali robusti e cash flow stabile (utilities, telecom, società con posizione di mercato forte). La qualità del credito rimane importante perché in caso di recessione improvvisa, i bond corporate rischiano downgrade e cali di prezzo.
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High Yield e obbligazioni emergenti: per i più audaci in cerca di rendimento più elevato, i bond ad alto rendimento (aziende con rating sotto investment grade) e i titoli di Stato/emissioni corporate dei Paesi emergenti offrono cedole che possono superare il 6-8%, compensando il maggiore rischio. Nel 2025 gli emergenti hanno mostrato una certa resilienza: i bond corporate EM hanno persino sovraperformato l’high yield USA, offrendo rendimenti più alti con volatilità minore. Inoltre, secondo Amundi, la crescita economica più robusta e la minor inflazione in molti paesi emergenti permetterà alle loro banche centrali di allentare la politica monetaria prima e più delle occidentali. Ciò crea potenziale di guadagno sui prezzi dei bond emergenti nel 2026. In particolare, India e paesi ASEAN sono considerati tra i più affidabili e dinamici (hanno debito pubblico relativamente basso e alta crescita) e offrono rendimenti reali interessanti. Anche alcuni paesi del Medio Oriente con rating elevati offrono opportunità (es. Arabia Saudita, Emirati). Naturalmente, qui la parola d’ordine è cautela: conviene investire tramite fondi/ETF diversificati su tanti emittenti, e tenere la componente speculativa entro limiti prudenti del portafoglio.
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Obbligazioni indicizzate all’inflazione: i cosiddetti TIPS (Treasury Inflation-Protected Securities) americani o i BTP Italia/BTP€i in Europa sono titoli che offrono cedole e capitale rivalutati con l’inflazione effettiva. Nel caso in cui l’inflazione resti più ostinata del previsto, questi bond proteggono il potere d’acquisto. Diversi esperti li suggeriscono come “asset con resilienza incorporata all’inflazione” in uno scenario di dazi e prezzi in salita. In pratica, possono fungere da assicurazione nel portafoglio 2026 se, ad esempio, nuove tariffe doganali dovessero alimentare rincari e spingere di nuovo l’inflazione sopra target. Il rovescio della medaglia è che se l’inflazione cala, questi titoli offrono rendimenti reali modesti; ma inserirne una quota può aumentare la diversificazione.
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Obbligazioni a tasso variabile e private debt: in un contesto di possibili tagli ai tassi, questa categoria è meno attraente (ha brillato nel 2022-23 quando i tassi salivano). Tuttavia, alcuni esperti citano l’incremento di allocazioni verso crediti privati a tasso variabile – ad esempio prestiti a aziende, infrastrutture, real estate – come strumento per ottenere rendimento decorrelato. Si tratta però di investimenti illiquidi e complessi, più adatti a investitori istituzionali o qualificati.
Duration: breve o lunga? Nel 2026 si potrebbe assistere a un fenomeno peculiare: se i mercati fiutano un taglio di tassi, le obbligazioni a lunga scadenza (20-30 anni) potrebbero registrare forti rialzi di prezzo, premiando chi si è posizionato sul tratto lungo della curva. Al contempo, se dovesse persistere incertezza sulle politiche economiche (debito USA elevato, rischio inflazione da dazi), gli investitori potrebbero chiedere maggior premio per tenere bond lunghissimi. Secondo il CIO di Amundi, “gli investitori probabilmente pretenderanno maggior compensazione per i bond a lunga scadenza, mantenendo i rendimenti interessanti; il nome del gioco sarà diversificare lontano dagli USA e dentro bond europei ed emergenti”. In pratica, conviene non esporsi in modo unidirezionale: avere un mix di duration nel portafoglio obbligazionario (un po’ di breve termine per liquidità e minor volatilità, un po’ di medio-lungo per incassare eventuali cali dei tassi).
Conclusione sui bond: Per la prima volta da molti anni, le obbligazioni nel 2026 offrono un mix allettante di cedole elevate e potenziale di capital gain, pur restando meno volatili delle azioni. I consulenti sottolineano l’importanza di re-integrare la componente obbligazionaria se era stata ridotta: un portafoglio bilanciato 60/40 potrebbe di nuovo dare rendimenti totali soddisfacenti approfittando dei tassi attuali (cosa impensabile nel decennio precedente, quando i bond rendevano ~0-1%). Naturalmente, bisogna considerare i rischi: un’eventuale recrudescenza inflattiva o crisi di default potrebbero colpire i bond. Ma in tal caso, probabile che le banche centrali reagirebbero proteggendo il mercato obbligazionario. In sintesi, “le obbligazioni potrebbero tornare a fare il loro mestiere” nel 2026 – ovvero generare reddito stabile e fungere da contrappeso alle azioni – ed è saggio valutare di aumentare leggermente il peso dei bond di qualità in portafoglio, mantenendo sempre diversificazione tra vari tipi di emittenti e scadenze.
5. Mercati emergenti: quali Paesi in primo piano
Quando si parla di “mercati emergenti” si intende quell’insieme eterogeneo di economie in via di sviluppo (dalla Cina all’India, dal Brasile alla Turchia, fino a molti Paesi del sud-est asiatico, dell’America Latina, Medio Oriente e Africa) che presentano alto potenziale di crescita ma anche rischi maggiori rispetto ai mercati maturi. Dove investire nel 2026 in quest’ambito? Gli esperti evidenziano alcune aree emergenti particolarmente promettenti, alla luce delle tendenze attuali.
Crescita economica superiore: In media, gli emergenti cresceranno più del doppio dei paesi sviluppati nei prossimi anni. Le proiezioni FMI indicano circa +3,7% crescita EM nel 2025 (e simile nel 2026) contro appena ~1,4% dei paesi avanzati. Questo growth gap si sta anzi ampliando: di fronte a un occidente zavorrato da inflazione residua, debiti pubblici e consumi in rallentamento, molte economie emergenti mostrano fondamentali migliorati (debiti pubblici relativamente più bassi, riserve valutarie in aumento, consumi interni in crescita). Ad esempio, l’India è vista come il nuovo motore della crescita globale: il suo PIL dovrebbe espandersi di oltre +6% annuo nel 2025-26, rendendola l’economia a maggior crescita tra quelle di grandi dimensioni. Anche altre nazioni del gruppo ASEAN (sud-est asiatico) come Indonesia, Vietnam, Filippine dovrebbero mantenere ritmi tra il 5% e 6%, sostenute da popolazioni giovani, investimenti esteri e industrializzazione.
Nuovi hub della produzione e commercio: Una tendenza chiave è il riassetto delle catene globali del valore. La quota delle esportazioni mondiali dirette verso gli USA da parte degli emergenti è calata dal 20% nel ,gli emergenti commerciano sempre più tra di loro e meno dipendono dalle importazioni dei paesi ricchi. Questo è accelerato dalle tensioni: i nuovi dazi USA spingono paesi come Cina e altri asiatici a rafforzare i legami regionali. La Cina rimane un attore enorme (anche se la sua crescita si è assestata su ~4-5%, è pur sempre un contributo enorme al PIL mondiale); la strategicità di Pechino come partner commerciale di Africa, Asia e Sud America continua ad aumentare. Ma emergono anche nuovi poli: l’ASEAN nel suo insieme è ora un hub manifatturiero alternativo e sta beneficiando di investimenti in fuga dalla Cina (il fenomeno “China+1”). India e Vietnam vengono spesso citate come vincitori del reshoring e decoupling: molte multinazionali stanno aprendo stabilimenti lì, attratte da costi bassi e supporto governativo, il che potrebbe farne le “Cina di domani”. Altri paesi favoriti dal nearshoring (rilocalizzazione delle produzioni più vicino ai mercati di consumo) sono il Messico – che grazie alla vicinanza agli USA sta vivendo un boom industriale, specie nell’automotive e apparecchiature – e alcuni paesi dell’Est Europa (Polonia, Romania) che beneficiano della diversificazione europea lontano dall’Asia.
Aree geografiche top: In base alle analisi ricorrenti, le aree emergenti da tenere maggiormente d’occhio nel 2026 includono:
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Asia emergente: è l’area più citata in positivo. India su tutti, definita “key beneficiary dei cambiamenti strutturali” e destinata a diventare il terzo mercato azionario mondiale nei prossimi anni La sua popolazione giovane, la digitalizzazione rapida e iniziative come “Make in India” ne fanno un polo di attrazione per capitali esteri. Insieme all’India, l’ASEAN (Sud-Est asiatico): paesi come Indonesia, ricca di risorse e con 270 mln di abitanti, Vietnam, nuova fabbrica del mondo con stabilità politica e ~6% di crescita, Thailandia, Malesia, Filippine. Questi paesi beneficiano anche del dinamismo demografico e di una crescente classe media locale. Asia meridionale: oltre all’India, anche Bangladesh e Pakistan (pur con instabilità) hanno popolazioni enormi e potenziale di sviluppo, anche se più di lungo periodo.
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Cina: merita discorso a parte. Pur essendo spesso considerata a sé stante (quasi un “mercato sviluppato non-occidentale”), la Cina nel 2026 vivrà sfide e opportunità. La crescita si è ridotta (~4-5%), complice il calo demografico e problemi nel settore immobiliare, ma resta un mercato fondamentale. Ha valutazioni azionarie piuttosto basse e potrebbe sorprendere positivamente se dovesse allentare le regolamentazioni su high-tech o se il governo stimolasse di più i consumi interni. Inoltre, la riduzione dei dazi USA su alcuni prodotti cinesi – scenario ipotizzato dal FMI – ha già portato a un upgrade delle stime di crescita cinese per il 2025 (da 4,0% a 4,8% secondo il FMI, grazie alla significativa riduzione dedi non va escluso dal radar, anche se molti preferiscono esposizioni indirette tramite ASEAN e altri partner commerciali cinesi.
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Medio Oriente: spesso trascurato nelle allocazioni emergenti tradizionali, sta guadagnando importanza grazie al petrolio caro e alle ambiziose trasformazioni economiche. Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar sono paesi con elevato PIL pro-capite che investono miliardi per diversificare l’economia (vedi progetti futuristici come NEOM in Arabia). La crescita prevista è robusta (~3-4%) e le loro borse offrono esposizione a settori in crescita come finanziari e costruzioni. Inoltre, queste nazioni beneficiano del trend di de-dollarizzazione (accumulano riserve in oro e investimenti anziché in sole valute, e attirano capitali da Asia ed Europa).
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America Latina: qui la situazione è mista. Brasile dopo un 2024 di forte rialzo dei tassi e frenata economica, nel 2025-26 potrebbe ripartire con inflazione in calo e tassi in discesa (già iniziati i tagli dalla banca centrale). Se gli USA imporranno nuovi dazi, tuttavia, il FMI avverte che il Brasile “rallenterebbe ulteriormente” data la sua sensibilità allo scenario esterno. Messico come detto è il favorito per il nearshoring, con investimenti record nelle maquiladoras al confine USA; la sua crescita è moderata ma stabile (~2-3%) e la valuta forte. Cile e Perù offrono esposizione al settore minerario (rame, litio) cruciale per la transizione energetica: se la domanda di minerali per batterie resta alta, queste economie ne beneficeranno. Argentina e Turchia restano invece mercati molto volatili e speculativi, da affrontare con estrema cautela data l’instabilità finanziaria.
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Africa e “frontier”: Africa sub-sahariana in aggregato cresce intorno al 4% annuo, ma pochi mercati sono accessibili facilmente. Nigeria e Kenya hanno mercati azionari emergenti, ma con rischi politici significativi. Sudafrica è emergente maturo ma attualmente stagnante. Molti paesi africani comunque beneficeranno degli investimenti cinesi e indiani (infrastrutture, telecomunicazioni). Nel lungo termine, Africa e Sud Asia sono i bacini di crescita demografica, ma per il 2026 gli esperti suggeriscono di concentrarsi sulle storie più solide altrove.
Perché investire negli emergenti: In uno slogan, “per la maggiore crescita e ora anche per resilienza finanziaria”. Storicamente gli emergenti erano visti come più vulnerabili a crisi valutarie e shock esterni. Ma c’è un cambio di paradigma in atto: molti EM hanno migliorato le proprie politiche macro (tassi alti presto per combattere inflazione, austerità dove necessario) e costruito difese (riserve valute, debito in valuta locale). Ad esempio, nel 2025 diversi paesi emergenti hanno già iniziato a tagliare i tassi prima della Fed, avendo domato l’inflazione interna. Questo dà loro un vantaggio ciclico e aiuta i mercati finanziari locali. Inoltre, come riportato da Robeco, le asset class emergenti nel 2025 hanno mostrato resilienza, con gli indici azionari EM (+7,4% YTD a maggio ’25) che hanno battuto quelli USA e globali, e i bond corporate EM che hanno reso più dei corporate USA a parità di ratin. Sono segnali che gli emergenti stanno diventando una componente strategica e non solo tattica nei portafogl. Molte case d’investimento consigliano di aumentare l’allocazione strutturale verso mercati emergenti, per cogliere quel mix di crescita economica, miglioramento degli utili societari (attesi in crescita a doppia cifra fino al 2026, superando l’andamento degli utili nei mercati sviluppati) e valutazioni più convenienti.
Come investire: L’approccio più semplice è tramite fondi o ETF emergenti ben diversificati, che includano magari un sovrappeso su Asia/India. Per chi volesse concentrare, esistono ETF su singoli paesi (ad es. MSCI India, MSCI China, FTSE Brazil ecc.) o su regioni (ASEAN, LATAM, Gulf Cooperation Council). Un esempio di investimento mirato è scegliere un “India fund” data la forte convinzione sul paese. Oppure acquistare ETF Emerging Asia per prendere sia India che Sudest asiatico in blocco. Chi cerca specifiche opportunità può valutare aziende emergenti quotate nelle borse occidentali (ADR): es. Alibaba o Tencent (Cina), Vale (Brasile, minerario), Reliance Industries (India, conglomerato).
Va comunque ribadito che gli emergenti comportano rischi maggiori: volatilità valutaria (il cambio può erodere i rendimenti se la valuta locale si deprezza), rischio politico (espropri, instabilità), governance societaria meno trasparente. Pertanto è prudente destinare una porzione minoritaria ma significativa del portafoglio (es. 10-20%) a questi mercati, in linea con la propria tolleranza al rischio. La logica è che, nel lungo termine, la crescita strutturale più alta e la convergenza economica giocheranno a favore degli investimenti EM, ma servono pazienza e sangue freddo per sopportarne gli alti e bassi nel breve periodo.
In conclusione, tra gli emergenti i nomi caldi per il 2026 secondo gli esperti sono: India (numero uno), il blocco ASEAN (Vietnam, Indonesia in testa), la regione del Medio Oriente (GCC), e a seguire Cina (con cautela) e alcuni casi selezionati in America Latina (Messico, Cile). Scommettere su questi paesi significa puntare dove la crescita economica si sta spostando – “il baricentro della crescita globale si sta spostando verso le economie emergenti” come nota Robeco – ed essere presenti dove potrebbe svilupparsi la prossima ondata di benessere e consumi. Diversi segnali indicano che il 2026 potrebbe finalmente vedere gli emergenti tradurre la loro crescita in performance per gli investitori (cosa non sempre avvenuta in passato), grazie a fondamentali più solidi e un contesto favorevole.
6. Criptovalute: Bitcoin & co. tra consolidamento e nuovi arrivi
Dopo le montagne russe degli ultimi anni, il mondo delle criptovalute rimane un asset altamente volatile ma che continua ad attrarre l’attenzione, soprattutto di investitori più giovani o propensi al rischio. Bitcoin ed Ethereum – le due maggiori criptovalute – hanno consolidato la loro posizione di leadership, mentre nell’ecosistema nascono costantemente altcoin e nuovi progetti. Cosa aspettarsi nel 2026 e quali crypto guardare? Ecco il quadro secondo gli esperti.
Bitcoin (BTC): la prima e più capitalizzata criptovaluta è spesso definita “oro digitale”. Nel 2025 ha vissuto un nuovo bull market, segnando addirittura un massimo storico oltre i $120.000 a metà anno (più del doppio del picco del 2021). Questo rally è stato alimentato dall’ingresso di investitori istituzionali (si parla di ETF su Bitcoin approvati negli USA, maggiore adozione come riserva da parte di alcuni grandi investitori) e dalla narrativa di Bitcoin come bene rifugio contro inflazione e instabilità (non a caso il prezzo è schizzato in alto durante le tensioni sui dazi, similmente all’oro). Alcune previsioni estremamente ottimistiche da parte di analisti di mercato vedono ulteriori margini di crescita per Bitcoin entro il 2026 – ad esempio gli analisti di Bernstein hanno ipotizzato quota $200.000 entro il 2026 in scenari di forte adozione istituzionale. Altri esperti tecnici (come alcuni seguaci dell’Elliott wave) hanno pronosticato un possibile picco intorno ai $140k nel 2025 seguito da un anno 2026 più difficile. Al di là dei numeri precisi, c’è consenso su un punto: Bitcoin è destinato a restare nel panorama finanziario, con oscillazioni anche ampie, ma con una tendenza di fondo verso una maggiore maturità. Entro il 2026 potremmo vedere Bitcoin integrato ancora di più nei portafogli (ad esempio se verranno lanciati davvero ETF spot su BTC, molti fondi pensione vi investiranno una piccola quota). Resta però un asset non adatto a cuori deboli: la sua volatilità è altissima e può subire cali di oltre il 50% in pochi mesi come già accaduto in passato.
Ethereum (ETH): la seconda crypto per capitalizzazione è fondamentale per tutto l’ecosistema smart contract. Ethereum è la piattaforma su cui girano la maggior parte dei progetti di finanza decentralizzata (DeFi), NFT, applicazioni decentralizzate, ecc. Nel 2026 Ethereum continuerà probabilmente ad essere la “spina dorsale” di molte innovazioni crypto. Dopo il passaggio con successo al proof-of-stake (The Merge del 2022) e ulteriori aggiornamenti per migliorarne la scalabilità, la rete ETH appare più robusta. Gli analisti notano come Ethereum sia diventato quasi un asset duale: da un lato valuta (usata per pagare transazioni e servizi on-chain), dall’altro “tecnologia/infrastruttura” su cui si costruiscono nuovi servizi fina. Dal punto di vista investimento, Ethereum viene spesso considerato in coppia con Bitcoin – tanto che alcuni ETF crypto contengono entrambi. Entro il 2026 non è escluso che anche per Ethereum vengano approvati ETF o prodotti mainstream (alcune società hanno già proposto Ethereum ETF negli USA). Il prezzo di ETH ha seguito BTC nel 2025, sebbene con volatilità persino maggiore. Al momento a metà 2025 veleggiava intorno ai $3.800, con un market cap di quasi $500 miliardi. Le prospettive restano legate all’adozione delle applicazioni decentralizzate: se progetti come la finanza decentralizzata o il metaverso vedranno una nuova primavera, Ethereum ne trarrà vantaggio. Viceversa regolamentazioni restrittive sugli smart contract potrebbero penalizzarlo.
Altcoin principali: oltre a BTC ed ETH, esiste un universo di altre migliaia di criptovalute (“altcoin”). Tra quelle a più alta capitalizzazione nel 2025 troviamo BNB (legata all’exchange Binance), XRP (token di Ripple per pagamenti transfrontalieri), Cardano (ADA), Solana (SOL), Polygon (MATIC), Dogecoin (DOGE) e altre. Ciascuna ha una sua storia e funzione. Ad esempio, XRP è tornata fortemente sotto i riflettori nel 2023-24 dopo sviluppi favorevoli nel caso legale con la SEC, e nel 2025 ha avuto una performance notevole (circa +50% da inizio anno a metà 2025). Solana, piattaforma ad alta velocità concorrente di Ethereum, ha recuperato dopo i crolli del 2022 ed è indicata da alcuni come una delle altcoin con più alto potenziale di crescita multipla (si parla perfino di possibili “+25x” in contesti estremamente bullish per progetti come Solana o Aptos). Monero (XMR), una privacy coin, ha anch’essa sovraperformato nel 2025 (+64% YTD a luglio) segno dell’interesse per coin che garantiscano anonimato. Nuovi nomi come Hyperliquid (HYPE), una blockchain layer-1 focalizzata su transazioni veloci, sono comparsi tra i top performer 2025 (+82% YTD). Anche coin nate per scherzo come Bitcoin Cash (BCH) o TRON (TRX) hanno visto rally del +30% e oltre, complici dinamiche speculative o di rete.
Queste oscillazioni dimostrano sia il potenziale di rendimento enorme delle altcoin (in bull market molte fanno multipli elevatissimi), sia il rischio altissimo: spesso dopo pump spettacolari seguono crolli altrettanto rapidi. Per il 2026, è plausibile che alcune altcoin di terza generazione – ad esempio dedicate a settori specifici (DeFi, gaming, metaverse, AI) – possano emergere e catturare l’attenzione. Ma prevedere oggi quali sarà è quasi impossibile e assimilabile al gioco d’azzardo.
Regolamentazione in evoluzione: Un fattore cruciale che influenzerà le criptovalute nel 2026 è la regolamentazione. In tutto il mondo le autorità stanno definendo regole su tassazione, inquadramento giuridico, requisiti per gli exchange, ecc.. L’UE ad esempio con il regolamento MiCA ha fornito un framework che entrerà in vigore tra 2024-2025. Gli USA stanno decidendo se considerare alcune crypto come securities (titoli) o commodity. Questo crea incertezza: da un lato, regole chiare potrebbero favorire l’adozione istituzionale; dall’altro, normative troppo rigide (o bandi) potrebbero colpire duramente alcune crypto. Nel 2026 avremo probabilmente molta più chiarezza legale rispetto ad oggi. È un arma a doppio taglio: la certezza normativa attirerà grandi investitori (fondi, banche) ma toglierà anche quell’alone di “Far West” che finora ha permesso crescite esplosive in assenza di supervisione. Per gli investitori, sarà importante seguire gli sviluppi normativi in USA, Europa e Asia (dove ad esempio Hong Kong mira a diventare hub crypto regolamentato).
Consigli degli esperti sulle crypto: La stragrande maggioranza dei consulenti mainstream continua a considerare le criptovalute come un investimento ad altissimo rischio e puramente speculativ. Viene generalmente consigliato, se proprio si vuole investire in crypto, di allocare solo una piccola frazione del portafoglio (ad esempio 1-5%) che si è disposti anche a perdere totalmente. Questo perché – vale la pena ribadirlo – le criptovalute non sono supportate da asset sottostanti, il loro valore dipende esclusivamente da cosa gli investitori sono disposti a pagare. I prezzi fluttuano enormemente (Bitcoin stesso ha avuto drawdown del -70% più volte). Diversificazione all’interno delle crypto è difficile, perché tendono tutte a muoversi in correlazione (quando scende Bitcoin di solito scendono anche le altcoin, spesso in misura maggiore). Anzi, gli analisti suggeriscono che se proprio si investe in crypto conviene restare sulle più capitalizzate e consolidate (BTC, ETH), evitando di rincorrere la memecoin o il token “nuovo del momento” che può crollare a zero dall’oggi al domani.
Nel 2025 abbiamo avuto un assaggio di quanto volatile possa essere questo mercato: Bitcoin ha più che raddoppiato il suo valore in sei mesi, Ethereum è salito del +50% nello stesso periodo, e diverse altcoin sono esplose verso l’alto. Chi aveva un’esposizione crypto ne ha beneficiato. Ma il rovescio della medaglia è che situazioni inverse sono già successe (2022 docet). La strategia prudente rimane: investire solo cifre che, nel peggiore dei casi, non compromettano la propria stabilità finanziaria.
In definitiva, nel 2026 le criptovalute continueranno a rappresentare un’opportunità di rendimento altissimo accompagnata da un rischio altrettanto elevato. Per chi crede nella tecnologia sottostante (blockchain, smart contract, DeFi) può aver senso detenere una piccola quota di crypto core (BTC/ETH) come scommessa sul futuro della finanza decentralizzata. Ma bisogna essere preparati a forti oscillazioni e possibili prolungati periodi di ribasso. Gli analisti mainstream ribadiscono l’importanza di inserirle in un contesto di portafoglio ben diversificato e di non farsi prendere dalla FOMO (fear of missing out) nei momenti di euforia. La tecnologia blockchain ha certamente potenziale rivoluzionario, ma valutare le singole coin è difficilissimo e gran parte dei progetti potrebbe non avere successo duraturo. Cautela e misura sono d’obbligo in questo settore.
7. Oro: il bene rifugio per eccellenza ai massimi storici
L’oro merita una sezione dedicata in quanto investimento intramontabile nei periodi di incertezza. Il 2025 ha segnato per il metallo giallo prezzi record assoluti, e nel 2026 l’oro continuerà ad essere al centro dell’attenzione come asset di protezione e diversificazione.
Rally e record recenti: Durante il 2024-2025 l’oro ha vissuto un rally poderoso, spinto dall’alta inflazione iniziale, dai timori recessivi e soprattutto dalle tensioni geopolitiche/commerciali. Ad aprile 2025 ha toccato un massimo storico di circa $3.500 l’oncia – livello impensabile solo pochi anni prima (basti pensare che nel 2019 quotava $1.300/oncia). Questa impennata è avvenuta contestualmente all’acuirsi della “guerra dei dazi” globale: l’oro ha beneficiato di una fuga verso i beni rifugio da parte di investitori preoccupati per l’incertezza e l’aumento dei costi. Un dato significativo: la domanda di oro da parte delle banche centrali mondiali ha continuato a segnare record, con acquisti annui nell’ordine di ~1.000 tonnellate sia nel 2022 che 2023-24 – e il 2025 sembra avviato ad essere un altro anno di accumulo vicino ai massimi storici. Le banche centrali, soprattutto di paesi emergenti, stanno accumulando oro come riserva alternativa al dollaro (trend di de-dollarizzazione), contribuendo al supporto dei prezzi.
Previsioni 2026: Gli analisti delle grandi banche d’affari vedono ulteriori possibili incrementi delle quotazioni auree. UBS ad agosto 2025 ha alzato il target, aspettandosi un prezzo medio di ~$3.600/oncia nel primo trimestre 2026 e $3.700/oncia per metà-fine 2026. Anche JP Morgan prospetta oro verso i $4.000 nel corso del 2026. Le motivazioni addotte: persistenti rischi macro negli USA (debito elevato, possibili dubbi sull’indipendenza Fed, ecc.), trend geopolitici (conflitti, tensioni) e prosecuzione della strategia di molti paesi di aumentare le riserve auree a scapito di dollaro/valute. In sintesi, si prevede elevata domanda “difensiva” di oro anche nei prossimi anni, sia da investitori istituzionali (ETF oro in entrata netta) sia da banche centrali e privati, che potrebbe spingere le quotazioni ancora più in alto. Va ricordato che l’oro è quotato in dollari: se il dollaro dovesse indebolirsi (scenario non improbabile se la Fed taglia i tassi), ciò spesso coincide con ulteriori rialzi dell’oro, essendo inversamente correlati.
Perché detenere oro: L’oro è tradizionalmente visto come riserva di valore di ultima istanza. Nei periodi di inflazione elevata, l’oro tende a mantenere il potere d’acquisto (nel 2022-23 ad esempio ha retto molto meglio dei bond). Nei periodi di crisi geopolitica o finanziaria, funge da bene rifugio: la sua correlazione con azioni e obbligazioni è spesso negativa nei momenti di panico, aiutando a bilanciare le perdite altrove. Nel 2026 permarranno vari possibili “cigni neri” (dai rischi sul debito USA a nuove guerre commerciali o conflitti reali): avere una quota di oro in portafoglio è un’assicurazione contro eventi estremi. Non a caso la regola empirica consigliata è destinare 5-10% del portafoglio a oro e altri beni rifugio.
Come investire in oro: Le opzioni principali sono due: acquistare oro fisico da investimento (lingotti o monete) oppure investire in strumenti finanziari legati all’oro (come ETF oro, ETC, certificati, futures). L’oro fisico ha il vantaggio di eliminare il rischio controparte ed è esente IVA se rispetta certi requisiti di purezza (vedi sezione fiscale); però comporta costi di conservazione (serve un luogo sicuro, tipicamente cassette di sicurezza) e spread acquisto/vendita non trascurabili. Gli ETF/ETC oro sono più liquidi e comodi, replicano fedelmente il prezzo spot (molti fondi detengono lingotti a garanzia), ma ovviamente sono titoli dematerializzati. Una scelta personale dunque: chi punta a tenere l’oro per moltissimo tempo e vuole massima sicurezza da sistemi finanziari potrebbe preferire qualche moneta d’oro fisica; chi invece lo vede in ottica tattica può propendere per l’ETF.
Fattori di rischio: Non bisogna pensare che l’oro salga sempre e comunque. Ci sono scenari in cui potrebbe consolidare o scendere: ad esempio se la situazione internazionale si stabilizzasse inaspettatamente (accordi commerciali duraturi, calo tensioni belliche) e nel contempo i tassi reali rimanessero positivi, allora parte della domanda rifugio svanirebbe. Oppure se il dollaro restasse forte, potrebbe frenare l’oro per i compratori non-USA. Inoltre, a quota $3500 l’oncia molto ottimismo è già prezzato; l’oro ha avuto un rally di +28% nei soli primi mesi del 2025, quindi fisiologicamente potrebbe anche correggere o lateralizzare in attesa di nuovi catalyst. Ad esempio, alcuni analisti tecnici vedono resistenze di breve termine e possibili ritracciamenti, pur mantenendo impostazione di lungo termine positiva. Dunque, se si entra ai prezzi attuali bisogna essere preparati anche a oscillazioni. Tuttavia, il “fondo” di supporto all’oro oggi è robusto: finché le banche centrali comprano e l’incertezza aleggia, difficilmente l’oro avrà cali drastici.
Argento e altri metalli preziosi: Accenniamo che spesso l’oro viene affiancato dall’argento, definito il “fratello minore” più volatile. L’argento infatti ha un duplice ruolo: bene prezioso rifugio e metallo industriale (usato in elettronica, solare, ecc.). Nel 2025 ha seguito l’oro verso l’alto (era oltre $35/oz, anch’esso su massimi decennali). Molti credono che in uno scenario di “moneta fiat svalutata” l’argento possa addirittura sovraperformare l’oro percentualmente. Per investire in argento vi sono ETC analoghi. Anche platino e palladio sono opzioni (metalli legati soprattutto all’industria auto e gioielleria) ma più di nicchia. Comunque, l’oro rimane il riferimento principale.
Bottom line: l’oro nel 2026 è visto dagli esperti come un elemento da mantenere in portafoglio per ragioni difensive, con la piacevole possibilità che continui a offrire anche rendimento positivo se le previsioni di prezzo in aumento si avvereranno. “L’oro potrebbe mantenere il suo ruolo di bene rifugio” affermano gli strategist, ricordando anche l’interesse per i metalli legati alla transizione verde (come rame e litio) per diversificare nelle materie prime. In definitiva, l’oro con ogni probabilità resterà un protagonista dei mercati nel 2026: che lo scenario sia di crisi (e allora brillerà come porto sicuro) o di ripresa con inflazione (e allora servirà come copertura dall’aumento prezzi), detenere una quota d’oro è giudicato da molti una mossa prudente.
(Da notare: in Italia l’oro da investimento gode di un trattamento fiscale favorevole – esente IVA – e viene considerato alla stregua di valuta estera per le plusvalenze, dettagli in chiusura.)
8. Diamanti: eterni e “tax free”, ma attenzione a costi e liquidità
Tra i beni rifugio alternativi all’oro, i diamanti vengono talvolta proposti come investimento. I diamanti vantano un’aura di pregio ed esclusività – “un diamante è per sempre” – ma convengono davvero come impiego finanziario nel 2026? Gli esperti forniscono un quadro con luci e ombre.
Performance storica e valore intrinseco: I diamanti naturali, soprattutto di alta qualità, hanno storicamente mantenuto o incrementato il loro valore nel lungo periodo. Si stima che negli ultimi decenni il valore dei diamanti sia cresciuto in media di circa +4,5% annuo, un trend stabilmente al rialzo. Questa crescita relativamente lenta ma costante è legata alla scarsità del bene (i diamanti sono risorse finite e l’estrazione sta raggiungendo il picco) e al fatto che vengono considerati un bene reale “duro”: come l’oro, non subiscono l’erosione dell’inflazione e non rischiano default di un’emittententi non sono collegati ad alcun governo o valuta, quindi proteggono dal rischio sistemico e hanno anche la caratteristica di essere “wealth dense” (un valore enorme in pochi grammi di pietra). Alcuni investitori facoltosi li usano infatti per diversificare patrimoni, in quanto non tassati e facilmente trasferibili (una manciata di diamanti di pregio può valere decine di milioni, portabile in una tasca, virtualmente indistruttibile e senza scadenza).
Vantaggi come investimento: I punti a favore dunque sono: protezione dall’inflazione e dalle crisi (il loro valore è principalmente determinato da domanda/offerta fisica globale, non correlato ai mercati finanziari), assenza di tassazione corrente (in Italia i diamanti non sono soggetti a imposta patrimoniale né capital gain tax in caso di rivendita da privato, e nemmeno a imposte di successione), riservatezza e portabilità (consentono di detenere ricchezza in forma anonima e trasportabile ovunque). Inoltre un diamante di alta caratura e purezza è un bene di lusso per il quale c’è sempre una nicchia di acquirenti internazionali facoltosi – la domanda tende a crescere col crescere dei milionari nel mondo.
In periodi di instabilità economica, i diamanti tendono a mantenere un buon rendimento nel tempo, consolidando il capitale. Ad esempio, durante la Grande Crisi Finanziaria 2008-09 le quotazioni Rapaport (listino di riferimento per diamanti) calarono meno dei mercati azionari e recuperarono successivamente. I diamanti di colore rarissimo (rosa, blu intensi) hanno addirittura visto record su record nelle aste recenti, segno che gli High Net Worth Individuals li apprezzano come riserva di valore tangibile.
Rischi e difficoltà: D’altra parte, investire in diamanti non è affatto semplice per un risparmiatore medio, ed è qui che gli esperti mettono in guardia. Innanzitutto, ogni diamante è unico – il valore dipende dalle famose 4C (Carat, Color, Clarity, Cut) di ciascuna pietra – quindi non c’è un prezzo di mercato uniforme e trasparente. Non esiste un “listino ufficiale internazionale” come per l’oroorofacile.it; il Rapaport Diamond Report è un riferimento usato nel settore, ma ogni transazione può discostarsene a seconda delle caratteristiche specifiche e della trattativa. Ciò pone l’acquirente in una posizione di svantaggio informativo rispetto al venditore, specialmente se non esperto di gemmologia: è facile pagare più del dovuto una pietra se non si sa valutare bene le 4C o non si confrontano molti fornitori.
Corollario di ciò è la bassa liquidità: i diamanti non si possono rivendere in tempo reale né su mercati regolamentati La vendita avviene tipicamente tramite intermediari (gioiellieri, società specializzate, case d’asta) che applicano commissioni robuste. Si stima che, mediamente, quando si rivende un diamante si perde circa un 20% del valore solo per coprire il margine del compratore/intermediario. Inoltre, trovare un acquirente può richiedere tempo, soprattutto per pietre molto grandi e costose (domanda più limitata) Insomma, i diamanti non sono strumenti liquidi: bisogna metterli in conto come investimento a lungo termine, da monetizzare magari solo in emergenze o in contesti di realizzo patrimoniale (successioni, ecc.).
Un altro elemento critico è il rischio di frodi o scarsa qualità: nel mercato retail dei diamanti circolano anche pietre sintetiche o trattate che possono ingannare. La tecnologia odierna produce diamanti sintetici indistinguibili a occhio nudo e sempre più economici. Questo potrebbe nei prossimi anni esercitare una pressione al ribasso sui prezzi dei diamanti naturali comuni (già oggi i diamanti di piccola caratura e qualità media non hanno apprezzato molto, anzi in alcuni casi si trovano sotto Rapaport sconti anche del 30-50% per via della concorrenza dei sintetici). Solo i diamanti eccellenti (colori top D/E, purezza IF/VVS, tagli perfetti) e quelli rarissimi (colori fancy vividi, dimensioni eccezionali) sono al riparo da questo fenomeno, ma quelli sono anche asset molto costosi e da collezionisti.
Infine c’è la questione dei costi di entrata: sul mercato consumer al dettaglio, i ricarichi sul prezzo dei diamanti possono essere elevati. Un privato ch diamante da un gioielliere paga un prezzo che include IVA (22% se acquistato in Italia fuori da zona franca) e margine del venditore – può capitare di pagare un diamante il doppio di quanto il gioielliere lo ha valutato. È essenziale quindi, se si vuole investire, comprare alle condizioni migliori possibili, ad esempio da rivenditori affidabili e magari sfruttando zone franche dove non si paga l’IVA In Italia ci sono zone franche (Val d’Aosta, Livigno, porti franchi) dove alcune società offrono la custodia di diamanti esenti IVA. Oppure si può acquistare su piazze come Anversa o Dubai dove il mercato all’ingrosso è più accessibile. Rimane comunque un campo minato per i non addetti.
Conclusione sui diamanti: In definitiva, i diamanti possono rappresentare un investimento alternativo per diversificare, proteggere una parte di patrimonio e tramandarlo (spesso i diamanti si tramandano in famiglia come riserva di emergenza, essendo anche esenti da tasse di successione). Hanno il pregio di non dipendere dai sistemi finanziari e di avere una volatilità bassa nel tempo (il loro valore non oscilla giorno per giorno come un titolo). Tuttavia, per un piccolo investitore risultano poco adatti: richiedono competenze specifiche, capitale paziente e tolleranza per un’illiquidità estrema Il rischio di pagare prezzi troppo alti all’acquisto e poi non riuscire a rivendere al valore sperato è concreto, come testimoniano purtroppo i casi di cronaca in Italia di società che vendevano diamanti a prezzi gonfiati a investitori ignari.
Il consiglio degli esperti è che se proprio si vogliono investire soldi in diamanti, bisogna studiare a fondo la materia o farsi assistere da professionisti indipendenti. Bisogna comprare solo gemme certificate dai principali istituti gemmologici (GIA, IGI, HRD) e preferire pietre con caratteristiche facilmente rivendibili (0,5-2 carati, colore e purezza elevate). Meglio evitare invece diamanti troppo grandi (>3 carati) o di qualità bassa, perché troveranno pochi compratori. E considerare i diamanti non come un investimento per fare trading o guadagno veloce, ma come un “bene rifugio da cassettista” – da tenere parcheggiato come si terrebbe una proprietà immobiliare o un’opera d’arte, attendendo eventuali rivalutazioni nel lunghissimo termine.
In sintesi, oro vs diamanti: l’oro è più semplice, liquido e standardizzato, per questo viene considerato “più affidabile e facile da gestire, soprattutto per i piccoli investitori”. I diamanti invece possono dare soddisfazioni (soprattutto ai grandi patrimoni per ragioni fiscali e di riservatezza), ma vanno approcciati con estrema prudenza per non incorrere in errori costosi. Diversificare una piccola frazione in diamanti fisici di qualità può avere un senso in ottica di wealth preservation a lungo termine, ma consapevoli di stare scambiando liquidità con un oggetto di lusso illiquido.
9. Arte e collezionismo: passione e investimento tra trend in evoluzione
Opere d’arte, oggetti da collezione, vini pregiati, orologi di lusso, auto d’epoca: questi “investimenti passionali” uniscono l’aspetto emozionale al potenziale di rendimento. Investire in arte e collezionismo non è per tutti, richiede gusto, conoscenza e orizzonte lungo, ma può rivelarsi molto remunerativo in certi casi. Vediamo lo scenario verso il 2026.
Crescente importanza patrimoniale: L’arte sta diventando una componente significativa nei portafogli dei più facoltosi. Secondo il report Art&Finance di Deloitte, il patrimonio mondiale in arte e collezioni degli individui ultra-ricchi (UHNW) era stimato in $2.174 miliardi nel 2022 e potrebbe crescere fino a $2.61 miliardi entro il 2026, arrivando a rappresentare circa l’11% d. Questa previsione riflette sia l’aumento del numero di ricchi nel mondo, sia una maggiore allocazione all’arte come asset alternativo. Già oggi circa il 63% dei wealth manager offre servizi legati all’arte ai clienti. Insomma, l’arte non è più vista solo come passatempo per collezionisti eccentrici, ma come un vero e proprio investimento complementare nel wealth management.
Rendimenti storici: I rendimenti dell’arte possono essere sorprendenti. Alcuni studi indicano che l’arte contemporanea (opere dal 1945 in poi) ha reso mediamente circa +14% annuo negli ultimi 25 anni, superiore anche all’S&P 500 (+9,5% annuo). Certo, questi dati vanno presi con cautela (dipendono dai periodi e dagli indici considerati, e includono i grandi successi). Ci sono stati casi clamorosi come il dipinto “Interchange” di Willem de Kooning, comprato per $20 milioni nel 1989 e rivenduto a $300 milioni nel 2015 – un ROI stratosferico. Anche categorie come i fine wines o le auto d’epoca hanno mostrato forti apprezzamenti (alcuni vini Bordeaux top classi ’90 hanno fatto +1000% in 20 anni; una Ferrari 250 GTO degli anni ’60 comprata a $5 milioni nel 1995 oggi ne vale 50-70 milioni). Questi esempi spiegano perché c’è fermento: un articolo riportava che il mercato globale dei collezionabili di lusso (arte, auto, vini, orologi ecc.) potrebbe raggiungere $450 miliardi entro il 2026.
Tuttavia, la performance media nasconde un’enorme dispersione: non tutte le opere d’arte aumentano di valore, anzi molte restano illiquide o svalutano se l’artista passa di moda. Il successo dipende dalla qualità, rarità, status dell’artista e dalle mode del momento.
Situazione del mercato dell’arte: Dopo il rimbalzo post-pandemia, il mercato dell’arte ha mostrato segni di rallentamento nel 2023-24. Le aste hanno registrato risultati più deboli: nella prima metà 2024, i lotti venduti all’asta totalizzavano appena l’1% sopra le stime basse, il gap più ridotto da oltre 7 anni. In altre parole, le aggiudicazioni sono state spesso inferiori alle aspettative, segno di un mercato in fase di correzione. Diversi fattori hanno inciso: incertezza macro (meno liquidità per acquisti voluttuari), tassi alti (costoso finanziarsi per comprare arte) e mancanza di capolavori offerti (i venditori esitano a mettere in asta i pezzi migliori in clima debole). Di conseguenza, molti parlano di un “buyer’s market” – mercato più favorevole agli acquirenti – in cui chi ha liquidità può strappare buoni affari. Bank of America a fine 2024 notava proprio “condizioni di acquisto favorevoli” con stime in calo e gallerie più disposte a sconti Questo potrebbe creare opportunità per investire in arte a prezzi relativamente interessanti nel 2025-26, in attesa di una futura ripresa.
Parallelamente, non mancano segmenti in controtendenza: ad esempio il mercato degli artisti latinoamericani e della diaspora latina è in forte ascesa, con vendite cresciute del +18% e molti record d’asta nel 2024. La domanda si sta diversificando geograficamente: collezionisti asiatici e mediorientali sono attivissimi su artisti occidentali, e viceversa crescono collezionisti occidentali per arte africana, latinoamericana, ecc. Questa globalizzazione amplia il bacino potenziale per varie categorie di opere.
Nuove modalità di investimento: Una novità dell’ultimo decennio è la possibilità di investire in arte anche senza essere miliardari. Sono nati fondi di investimento in arte e piattaforme di fractional ownership (proprietà frazionata) dove investitori retail possono acquistare quote di opere blue-chip. Ad esempio società come Masterworks offrono di comprare piccole quote di un Picasso o Basquiat. Ciò consente teoricamente di partecipare ai rendimenti dell’arte con capitale limitato, anche se restano questioni su liquidità e costi. Altri collezionabili, come i vini pregiati, sono accessibili tramite fondi di investimento specializzati o borse del vino (Liv-Ex). Gli NFT (Non-Fungible Tokens) hanno portato un’altra dimensione, anche se il boom del 2021 si è ridimensionato: resta comunque l’idea che la tokenizzazione potrebbe in futuro rendere “investibili” frazionalmente tanti tipi di asset da collezione.
Rischi e consigli: Investire in arte e oggetti da collezione rimane complesso e rischioso se fatto a fini di lucro. I rischi principali:
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Illiquidità: vendere un quadro o un orologio importante può richiedere tempo e costi (commissioni d’asta ~15-25%). Non sono asset prontamente liquidabili se serve cassa.
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Valutazione incerta: il prezzo “giusto” di un’opera d’arte non è oggettivo, dipende dalla percezione e da fattori soggettivi. Un cambio di gusto o la scoperta di un difetto di autenticità possono far crollare il valore.
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Costi di detenzione: mantenere un’opera richiede spesso costi di assicurazione, conservazione (clima, sicurezza), intermediazione. Questi costi erodono il rendimento.
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Alto ingresso cognitivo: servono competenze specifiche o consulenti di fiducia. Buttarsi senza conoscenza espone al rischio di prendere falsi, sovrapagare, o comprare artisti “di moda” al top della bolla.
Gli esperti suggeriscono dunque di considerare arte e collezionismo soprattutto se si ha passione genuina per l’oggetto. Il ritorno finanziario va visto come eventuale bonus, non garantito. Meglio focalizzarsi su opere/articoli di alta qualità e storicamente importanti, che mantengono valore meglio. Ad esempio, nell’arte conviene puntare su artisti “blue-chip” già affermati (i vari Picasso, Warhol, Monet, ecc.) o su talenti emergenti ma con forti basi museali. Nei vini, investire sulle annate top di château blasonati piuttosto che su bottiglie mediocri. Negli orologi, marchi iconici (Patek, Rolex vintage rari). In generale, qualità batte quantità.
Prospettive 2026: Con la grande ricchezza globale in aumento e il trasferimento generazionale di patrimoni, la domanda di beni da collezione dovrebbe continuare a crescere. I giovani ricchi (millennial e GenZ facoltosi) sembrano interessati a nuove categorie: ad esempio fumetti e manga (il mercato globale del comic ha CAGR +10% atteso 2022-2030, sneakers rare, carte Pokémon, memorabilia di cultura pop. Questo apre scenari inediti di collezionismo investibile. Già ora collezioni “alternative” ottengono riconoscimento: si pensi ai memorabilia di star (la vendita di oggetti di celebrità va forte, come l’asta di Barbara Walters menzionata da Bonhams).
Gli esperti evidenziano come il cambio generazionale sia un driver: i baby boomer che possedevano antichità e arredi classici stanno vendendo, trovando però poca domanda – “molte categorie stanno morendo perché le nuove generazioni non vivono in case grandi piene di mobili Luigi XIV” notava un consulente. Ciò ha creato opportunità: “se cerchi settori depressi, oggi puoi fare ottimi affari su argenti, mobili antichi, ecc. perché c’è tanta offerta e poca domanda”. Potrebbe essere un investimento contrarian interessante per chi crede che prima o poi torneranno in auge.
In conclusione, l’arte e il collezionismo nel 2026 rappresentano un campo affascinante dove passione e investimento si intrecciano. Per chi ha già un portafoglio tradizionale solido, dedicare una parte (tipicamente piccola, 5-10%) a questi asset tangibili può aggiungere diversificazione e anche soddisfazione personale. L’importante è farlo con consapevolezza dei rischi: come dicono i consulenti, “investi in arte solo quello che sei disposto a tenere a lungo e di cui sai apprezzare la bellezza, così non rimarrai deluso se il rendimento finanziario tarderà”. Di certo, possedere un bel quadro o un orologio d’epoca ha un rendimento “emotionale” immediato che azioni e bond non danno – ma questo esula dai freddi calcoli monetari. Dal punto di vista finanziario puro, negli ultimi anni l’arte ha dimostrato di poter ottenere rendimenti eccellenti (soprattutto per i top quartile di opere), e molti credono che continuerà ad essere così man mano che sempre più investitori entreranno nel settore in cerca di diversificazione.
10. Avviare un’attività (anche in franchising): investire su se stessi e sulle tendenze emergenti
Oltre ai mercati finanziari, dove investire nel 2026? Una risposta spesso sottovalutata è: in se stessi, avviando un’attività imprenditoriale. Che sia mettersi in proprio aprendo una startup, acquisire un’attività esistente o entrare in un franchising, l’imprenditoria è una forma di investimento (di capitali e tempo) che può dare grandi soddisfazioni. Vediamo le tendenze e i settori caldi per chi valuta questa strada.
Perché considerare l’imprenditoria: Investire in un business proprio significa puntare sul creare valore direttamente, invece di affidarsi solo a strumenti finanziari passivi. I vantaggi potenziali sono alti: un’azienda di successo può generare rendimenti ben superiori a quelli borsistici, oltre a dare indipendenza lavorativa. Naturalmente c’è il rovescio: rischio elevato e impegno totale. Gli esperti sottolineano che “avviare un’attività richiede un’idea solida, un business plan, capitale, tempo e grande impegno. Può essere molto remunerativo, ma con rischio elevato”. Non tutti sono tagliati per fare impresa; però chi ha spirito imprenditoriale potrebbe trovare nel 2026 un buon momento, in quanto l’economia post-pandemia ha creato nuovi spazi e bisogni.
Trend 2025-2026 nei franchising: Il franchising è spesso un buon compromesso per iniziare un business con un modello collaudato. Si compra la licenza di un marchio e un format già testato, riducendo alcuni rischi (brand noto, formazione fornita, supporto marketing). In cambio si paga un fee iniziale e royalty periodiche. Secondo gli osservatori, nel 2025-26 alcuni settori franchising stanno avendo particolare slancio:
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Food & Beverage economico: “Abbiamo scelto alcune categorie food che piacciono a clienti e franchisee attenti ai costi: bevande, pollo, dessert” riporta Entrepreneur sulle tendenze 2025. In pratica format di ristorazione veloce e a basso costo (bubble tea e caffetterie specializzate, franchising di fried chicken o wings, gelaterie e dessert shop) vanno forte perché incontrano sia l’esigenza del pubblico di spendere poco, sia quella degli affiliati di investire in concept semplici e replicabili. Anche il fast-casual healthy (poke, insalate, smoothie) continua a crescere grazie al trend salutista.
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Cura della persona e benessere: “La sete di salute e benessere” è al primo posto tra i trend franchising secondo Forbes. Questo include palestre boutique specializzate (es. yoga, pilates, CrossFit), centri wellness, nutrizione, estetica avanzata. Ad esempio franchising di fitness per bambini o di servizi di salute mentale e per disturbi specifici (centri per autismo) sono in ascesa. Anche i servizi per anziani (senior care a domicilio, case di riposo in franchising) vedono domanda crescente con l’invecchiamento della popolazione
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Pet industry: Il settore animali domestici è in boom costante – “la gente spende sempre di più per i propri animali”. Franchising di toelettatura, pet shop specializzati, asili per cani, addestramento, veterinaria low-cost sono tutti modelli presenti e con ottime prospettive
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Casa e servizi: complice anche il tempo extra passato in casa negli ultimi anni, c’è forte domanda per miglioramenti domestici. Franchising di ristrutturazione e home improvement (pittura, rifacimento bagni/cucine, ecc.) e di restauro danni (restoration, ovvero servizi post-alluvione, muffa, incendio) sono segnalati tra i trend top del 2025. Così come servizi di pulizia specializzata, disinfestazione, giardinaggio, traslochi – settori tradizionali ma spesso organizzati con successo in franchising.
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Eco-sostenibilità: i consumatori premiano concetti eco-friendly. Vediamo spuntare franchising di negozi sfusi zero-waste, di energie rinnovabili (installazione pannelli solari, stazioni ricarica EV), di prodotti eco per la casa. Forbes cita “eco-friendly options” come trend emergenteforbes.com.
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Mercati emergenti nel franchising: Ad esempio in Italia sono esplosi franchising come panetterie con consumo sul posto, negozi di sigarette elettroniche, cliniche dentali in franchising, ecc. Negli USA trend sono childcare (asili e doposcuola), autismo services, senior home care già menzionati. Anche settori come l’educazione e tutoraggio (scuole di inglese, coding per bambini), e il settore automotive (officine rapide, autolavaggi ecologici) restano evergreen.
In generale, nel 2026 un aspirante imprenditore in franchising dovrebbe guardare a dove c’è domanda resiliente e possibilmente costi di ingresso contenuti. Entrepreneur nota come quest’anno spopolino format “budget-friendly” sia per clienti che per investitori. Ciò è coerente con un contesto economico non brillantissimo: la gente cerca opzioni economiche (cibo a buon mercato, servizi essenziali), e i franchisee preferiscono business con investimento iniziale non elevatissimo.
Startup innovative e PMI: Al di là del franchising, chi vuole lanciare una propria startup magari in settori innovativi trova nel 2026 un ambiente con luci e ombre. Da un lato, i venture capital sono più selettivi dopo le euforie del 2021, ma dall’altro ci sono molte aree di opportunità legate a nuove tecnologie (AI, Web3, biotech) e alla transizione ecologica. Settori segnalati come promettenti: digitalizzazione dei servizi (fintech, edtech, healthtech), soluzioni sostenibili (riciclo, energie pulite, agritech sostenibile), servizi personalizzati e di nicchia magari usando piattaforme online. L’e-commerce è maturo ma continua ad evolversi (esplosione quick-commerce, abbonamenti). Il 2026 vedrà probabilmente la crescita di imprese legate all’Intelligenza Artificiale applicata: c’è fermento nel creare applicazioni verticali di AI in ogni settore. Anche il settore della cybersecurity e privacy offrirà spazio a startup, dati i rischi crescenti.
Chi non se la sente di partire da zero può valutare di investire in PMI esistenti o startup altrui tramite equity crowdfunding, business angel o fondi venture. Piattaforme italiane di equity crowdfunding nel 2025 hanno lanciato molte campagne di successo, segno che c’è interesse a finanziare nuove imprese (ricordiamo anche i vantaggi fiscali: in Italia investire in startup/PMI innovative dà diritto a detrazioni IRPEF fino al 30-50%). Naturalmente anche qui il rischio è elevato – la maggior parte delle startup fallisce.
Considerazioni conclusive sul fare impresa: L’investimento imprenditoriale è forse il più impegnativo: richiede competenze, duro lavoro e tolleranza al rischio molto alta. Non è liquido (il capitale è legato all’azienda, non si può smobilizzare facilmente) e può volerci tempo per vedere risultati. Ma può essere altamente gratificante sia economicamente che personalmente. Spesso si dice che investire sul proprio business è l’unico modo di avere un controllo diretto sul proprio destino finanziario, anziché dipendere dai mercati. Nel 2026, se si individua un bisogno di mercato non ancora soddisfatto o un trend su cui costruire un servizio, potrebbe essere il momento giusto per lanciarsi. Ad esempio, l’accelerazione digitale post-Covid ha aperto mercati nuovi (telemedicina, lavoro ibrido, servizi on-demand). E con l’eventuale allentamento monetario, costi di capitale in discesa nel 2025 potrebbero dare una spinta a chi deve finanziarsi per aprire un business
Un consiglio su tutti: se si decide di investire in un franchising o attività, fare due diligence approfondita. Valutare bene il franchisor (storia, supporto, conto economico tipo di un affiliato medio), il territorio, i concorrenti, e soprattutto valutare se stessi – se si è pronti a gestire quell’attività operativamente. Ricordiamo che “non esiste guadagno senza impegno”: anche un franchising richiede dedizione quotidiana, non è un investimento passivo. Però seguendo i trend giusti e con la giusta esecuzione, aprire un’azienda nel 2026 potrebbe rivelarsi l’investimento più profittevole, cavalcando la ripresa economica attesa e riempiendo nicchie di mercato.
Considerazioni fiscali finali 📑
Un ultimo aspetto da non trascurare quando si pianifica dove investire sono le implicazioni fiscali. La tassazione può influire significativamente sul rendimento netto degli investimenti. Ecco alcune linee generali valide per un investitore italiano nel 2026 (situazione corrente):
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Azioni, ETF, fondi comuni e altri strumenti finanziari: le plusvalenze (capital gain) realizzate e i proventi da questi investimenti sono tassati con aliquota del 26% in Italia. Questo vale anche per criptovalute, che dal 2023 sono state equiparate a valute estere ai fini fiscali: se nel corso dell’anno si realizzano guadagni sopra €2.000, si applica il 26%. (Va monitorato se in futuro ci saranno aggiustamenti normativi sulle crypto, ma attualmente l’approccio è questo).
Nota: fanno eccezione eventuali plusvalenze su partecipazioni qualificate, che sono tassate parzialmente come reddito IRPEF, ma per l’investitore medio che compra azioni quotate in libera circolazione vale il 26%. I dividendi percepiti da società estere sono anch’essi tassati 26% (al netto di eventuali ritenute estere da recuperare). -
Titoli di Stato e assimilati: gli interessi (cedole) e le plusvalenze su titoli di Stato italiani (BTP, CCT) ed equiparati godono di un’aliquota agevolata del 12,5%. Ciò vale anche per titoli di Stato di paesi “white list” (es. UE). Dunque i BTP non solo offrono cedole interessanti, ma subiscono meno tasse rispetto a corporate bond o azioni. Questa differenza fiscale aumenta l’appeal dei governativi per gli investitori italiani. Attenzione che gli ETF obbligazionari su titoli di Stato spesso perdono l’agevolazione (vengono tassati 26% sui proventi, salvo complicate ripartizioni) – conviene informarsi strumento per strumento.
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Oro da investimento: l’oro fisico da investimento (lingotti o monete con purezza almeno 995/1000) è esente da IVA per legge comunitaria. Inoltre, in Italia le eventuali plusvalenze sull’oro fisico non sono soggette a tassazione come capital gain se l’oro è detenuto fuori dal regime d’impresa (viene considerato alla stregua di valuta estera). Dunque, chi compra monete/lingotti d’oro e un domani li rivende a prezzo maggiore, in genere non paga tasse sul guadagno – a patto che la compravendita non configuri attività professionale commerciale. Questo fa dell’oro uno strumento fiscalmente efficiente per patrimoni rilevanti. Anche gli ETF oro sono esenti da imposta sulle plusvalenze maturate in quanto considerati valuta estera (ma c’è il 26% su eventuali interessi attivi, che però gli ETC oro puri non distribuiscono).
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Diamanti e pietre preziose: come accennato, i diamanti non sono soggetti a imposte sul capital gain (non essendo titoli finanziari né immobili). Inoltre sono fuori dall’IVAFE/bollo (vedi dopo) e esentati da tasse di successione (in quanto beni mobili non registrati). Questo li rende attraenti per chi vuole trasmettere ricchezza in forma esentasse. L’unico onere fiscale è l’IVA al 22% al momento dell’acquisto, che però si può evitare comprando in zona franca o da rivenditori esteri in paesi a fiscalità speciale. In sintesi, una volta acquistati, i diamanti non generano altri carichi fiscali diretti.
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Immobili: non trattati sopra, ma ricordiamo che la vendita di una prima casa dopo 5 anni dall’acquisto non genera tasse sulla plusvalenza. Le seconde case sì, ma se vendute oltre 5 anni dall’acquisto sono esentasse (entro 5 anni c’è imposta sulla eventuale plusvalenza come reddito). Sugli immobili c’è poi IMU annuale ecc., ma qui ci focalizziamo su strumenti finanziari.
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Polizze vita e Previdenza integrativa: investimenti tramite polizze vita di ramo I o multiramo godono di tassazione differita (si paga il 26% solo al riscatto sul rendimento maturato) e di esenzione successoria. I fondi pensione/PIP hanno vantaggi fiscali ancora maggiori (deducibilità contributi fino €5.164 e tassazione agevolata 15%-9% al riscatto). Chi ha capienza fiscale può valutarli come veicolo di investimento efficiente per una parte del patrimonio previdenziale.
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Bollo e IVAFE: su conti e investimenti detenuti in Italia si applica l’imposta di bollo annua dello 0,2% sul valore (di fatto una patrimoniale). Sui conti titoli italiani la banca addebita lo 0,2% annuo (con minimo €34,20 per conti deposito). Sugli strumenti esteri (depositati all’estero) si applica la simile IVAFE 0,2%/anno da dichiarare nel quadro RW. Oro fisico e diamanti detenuti personalmente non sono soggetti a IVAFE (sono beni non finanziari). Le criptovalute depositate su wallet esteri dovrebbero scontare IVAFE (€200 fisso per depositi di valuta estera, ma l’applicazione alle crypto è stata dibattuta; dal 2023 con la nuova legge crypto si chiarirà meglio, per ora si tende ad equipararle a valute e quindi soggette a IVAFE).
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Compensazione minusvalenze: è sempre importante ricordare di utilizzare eventuali minusvalenze pregresse per compensare future plusvalenze (nel limite dei 4 anni). Ad esempio, chi ha perso soldi su azioni nel 2022 può usare quelle minus per abbattere tasse su guadagni 2023-2026. In regime amministrato le banche lo fanno automaticamente se c’è capienza.
In generale, è utile pianificare gli investimenti anche in un’ottica fiscale: ad esempio, tenere i titoli di Stato direttamente per sfruttare il 12,5%; eventualmente realizzare plusvalenze in anni in cui si hanno minus da compensare; considerare strumenti esenti (oro, polizze vita) per la parte di patrimonio di lungo termine. Anche ottimizzare la localizzazione: se si opera con broker esteri, bisogna farsi carico di dichiarazioni RW e versamento imposte, ma si può avere accesso a mercati più ampi; con broker italiani è tutto automatizzato ma c’è meno flessibilità (non si può ad esempio evitare il bollo).
Infine, attenzione a eventuali novità: la legge di bilancio 2023 ha introdotto una sorta di “tombale” per cripto con aliquota sostitutiva opzionale su giacenze al 31/12/2022, e regole nuove su valutazione al costo. Il fisco sulle crypto è in evoluzione. Idem eventuali cambi su tassazione dividendi, ecc. Vale la pena restare aggiornati o consultare un fiscalista per ottimizzare il proprio caso specifico.
In conclusione, dove investire nel 2026? Azioni globali, selezionando qualità e megatrend secolari; obbligazioni di nuovo attraenti per reddito e diversificazione; ETF come strumento principe per attuare queste scelte in modo efficiente; mercati emergenti per aggiungere crescita extra; un tocco di cripto solo per i più audaci e in piccola dose; i classici beni rifugio come oro (e per alcuni diamanti) a protezione; eventualmente diversificare in arte e collezionabili per patrimonio di lungo termine; e non dimenticare l’investimento su se stessi, che sia formazione o iniziative imprenditoriali, perché in un mondo in rapida evoluzione può dare frutti impagabili. Il tutto sempre con un occhio alla gestione del rischio e alle implicazioni fiscali, per massimizzare il rendimento effettivo. Il 2026 offre molte opportunità, ma nessuna “palla di vetro” infallibile: per questo la regola d’oro resta diversificare, mantenendo il portafoglio bilanciato e allineato ai propri obiettivi e profilo di rischio. Buon investimento!
Fonti:
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